28-7-1 - Edizioni Parva

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Fede e libertà
(da Guarire l'anima per curare anche il corpo)
Credere in Dio conviene sempre.
Prima di tutto perché si vive meglio, immensamente più liberi e più sereni, nella certezza che in Lui non moriremo mai, ed esisteremo perciò nella dimensione di una vita veramente eterna, e ciò cancella ogni inquietante paura della morte intesa come fine di tutto e angosciosa sparizione nel nulla. E poi perché, se (egoisticamente e razionalmente parlando) crediamo nella vita eterna, una volta morti non avremo sorprese. Infatti se, pur avendoci creduto, Dio non esistesse, la morte ci precipiterebbe nel nulla; ci dissolveremo e non avremo più coscienza di niente, ma almeno avremo vissuto bene in una bella illusione.
Se invece non ci abbiamo creduto e ci troviamo improvvisamente faccia a faccia con Dio, inaspettatamente immersi nel suo mondo, scopriremo di aver fondato tutta la nostra esistenza su illusioni scambiate per realtà, su inganni scambiati per verità, e sapremo di aver sprecato tutta la vita.
Ecco, proporrei a chi non crede, o a chi si lascia irretire da elucubrazioni e cavilli d’ogni genere per giustificare la sua indipendenza dalla favola religiosa, di porsi in questa ottica, e di “voler” credere che esiste realmente un Dio che lo ha voluto, che lo ha creato, che lo ama, lo protegge, lo sostiene, e lo guida all’incontro definitivo con Lui.
Un Dio che non lo perde di vista neanche un secondo, che “conta i capelli del suo capo” (Mt 10,30; Lc 12,7) e lo tiene in vita in ogni istante, con un amore e una tenerezza infiniti.
È necessario però voler credere al Dio vero, non a un Dio tappabuchi, niente affatto indispensabile, utile soltanto quando ci si trova di fronte a vuoti che la scienza non è in grado di colmare, a dubbi che la ragione non riesce a sciogliere, o in situazioni umanamente insolubili; oppure a un Dio impersonale e astratto come quello delle religioni orientali, in cui l’uomo si dissolve e perde la sua identità; e neppure al Dio che ognuno vorrebbe, il Dio che ognuno immagina, un Dio insomma inventato dall’uomo e che corrisponde alle sue esigenze, alla sua mentalità, alla sua cultura. No, un Dio così si riduce soltanto a un principio filosofico o religioso, ed è soltanto una proiezione della mente e dei bisogni dell’uomo.
Parlo del Dio vero, quello che esiste autonomamente, e che è sempre diverso da come noi potremmo immaginarlo, lontano da come siamo umanamente in grado di concepirlo, perché è infinitamente Altro da noi, incomprensibile e inaccessibile, onnipotente e creatore; il Dio che è amore, e che è una Persona, e ci ama personalmente, individualmente, chiamandoci per nome; il Dio che “risana i cuori affranti e fascia le loro ferite; conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome” (Salmo 147, 3-4).
Intendo, insomma, il Dio vero, il Dio reale.
Se ci si pone sinceramente in questa dimensione, penso che poi sarà inevitabile desiderare di approfondire la conoscenza di questa Realtà oggi tanto ignorata o disprezzata, e quindi arrivare a sperimentare e a riconoscere nella propria vita la presenza continua e amorevole di Dio. Perché Dio non è soltanto una teoria più o meno “antica”, non è un’astrazione più o meno filosofica, non è un’illusione che aiuta gli ingenui a dare un senso alla vita, non è nemmeno una religione: Dio è la vita stessa, è la nostra stessa vita.
Se lo cerchiamo davvero, se lo vogliamo davvero incontrare, se lo vogliamo veramente conoscere, Dio si fa trovare, e la nostra vita cambia. Noi stessi cambiamo. Inevitabilmente, radicalmente, meravigliosamente. Se accettiamo di vivere in Lui, infatti, ci scopriamo incredibilmente grandi, e la nostra esistenza ci si rivela molto più ampia e sorprendente di come la percepiamo nella sua dimensione tutta terrena, “soltanto” umana.
Il termine “umano” ci porta sempre a pensare a qualcosa di riduttivo, magari anche in contrasto col divino.
E così quando diciamo “natura” ci riferiamo sempre a una dimensione soltanto materiale e fisica, quantificabile e sperimentabile in laboratorio, di competenza della scienza.
E quando parliamo di “natura umana” escludiamo in un certo senso l’aspetto spirituale dell’uomo, e facciamo riferimento specificamente al corpo, considerandolo in contrapposizione all’anima.
Ci viene insegnato a pensare in termini di produttività, ad agire in conformità alle regole sociali, e la nostra efficienza, la nostra positività, il valore della nostra esistenza sembra dipendere dalle affermazioni della scienza e dall’approvazione sociale. In questa omologazione sempre più globale, una dimensione alternativa non è ammessa.
Non è ammessa, ma esiste. E non soltanto esiste, bensì è anche la più reale e la più vera. I saggi e gli eremiti di tutti i tempi l’hanno cercata, l’hanno trovata, l’hanno vissuta.
Noi oggi la cerchiamo forse con più angoscia di un tempo, forse anche con più urgenza, perché il mondo in cui viviamo ci si rivela un campo di battaglia terribile, che esaspera tutte le sue energie per cancellare Dio e deificare l’uomo. E siccome questo non è possibile, perché nessuna realtà soltanto terrena potrà mai realizzare pienamente l’uomo, e nessuna scienza d’avanguardia potrà mai uccidere Dio, è inevitabile che ad ammalarsi e a morire sia l’uomo.
Anche Giacobbe ha combattuto con Dio, ma poi l’ha riconosciuto. Ne è uscito ferito, sì, perché nessuna lotta con Dio lascia incolumi; ne è uscito ferito, ma vittorioso. Ne è uscito zoppicante, perché il segno della sua lotta gli ricordasse sempre la sua realtà di creatura, ma rinnovato, interiormente più forte e più vivo.
Ed è questo che ci salva: la consapevolezza di essere creature.
Non ci salva la presunzione di poter fare senza Dio, ma la coscienza di essere creature di Dio, di per sé fragili, insignificanti e impotenti, ma in quanto amate da Lui realmente in Lui onnipotenti.
Credere in Dio è realizzare in pienezza la nostra umanità, la “sostanza” del nostro essere.
Noi pretendiamo sempre delle “prove”, per credere a qualcosa; ma nessuna prova può bastare, quando non si vuole credere.
Nemmeno il miracolo più eclatante può portare alla fede: se non voglio credere, se decido di non credere, non credo, e basta.
La fede non nasce da un ragionamento, e nemmeno viene dall’esterno: se l’intelligenza o l’evidenza mi dimostrassero Dio, dovrei semplicemente costatarlo, e non sarebbe più fede. Non solo: se non avessi alternative tra cui scegliere, non sarei libero.
Se non sono disponibile a credere, nemmeno l’evidenza dei fatti può condizionare la mia libertà: le difese dell’intelletto alzeranno sempre barriere contro ciò che non voglio riconoscere, solleveranno sempre dubbi su ciò che contrasta il mio orgoglio, costruiranno sempre mille giustificazioni per avvalorare le mie posizioni.
La fede dipende tutta dall’apertura del mio cuore, dalla mia umiltà, dalla consapevolezza che non sono un dio, ma una creatura di Dio, e non posso mettermi a discutere col mio Creatore: “Potrà forse discutere con chi lo ha plasmato un vaso fra altri vasi di argilla? Dirà forse la creta al vasaio: «Che fai?» oppure: «La tua opera non ha manichi»? Chi oserà dire a un padre: «Che cosa generi?» o a una donna: «Che cosa partorisci?». Dice il Signore, il Santo di Israele, che lo ha plasmato: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo; io con le mani ho disteso i cieli e do ordini a tutte le loro schiere…»” (Is 45, 9-12)
Pare che anche noi cristiani in gran parte non crediamo al Dio vero, al Dio reale: crediamo a un Dio teologico, cioè a un Dio che il nostro intelletto possa in qualche modo definire e comprendere; a un Dio anche legalista, che ci inibisce con i suoi divieti e l’imposizione delle sue regole; forse anche a un Dio padrone, che temiamo perché ci impedisce di essere liberi, perché ci pretende in un certo modo e condiziona così le nostre scelte e tutta la nostra vita; oppure crediamo a un Dio sociale, in cui possa identificarsi il nostro senso di giustizia. Insomma, penso che anche molti cristiani credono a un Dio astratto come una teoria qualsiasi; o a un Dio potente che ci tiene in pugno e ci costringe a obbedire con la paura dell’inferno; oppure a un Dio piccolo in cui potersi specchiare, un Dio addomesticato che non contrasti i nostri principi e le nostre certezze di cristiani ormai adulti ed evoluti.
Un Dio così non potremo mai incontrarlo, perché non esiste; un Dio così è soltanto una proiezione delle nostre idee e delle nostre convinzioni, dei nostri pregiudizi e della nostra ignoranza, delle nostre paure e dei nostri bisogni. Dio invece è l’Altro, cioè è molto diverso da come noi arriviamo a pensarlo, a teorizzarlo, a immaginarlo, a desiderarlo o a volerlo. Dio è mistero. Un insondabile mistero d’amore.
Il guaio è che a questo Dio, al Dio vero, forse non ci crediamo.

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